Mottinelli Beniamino

Nato a Rino (comune di Sonico)

10 ottobre 1935

Intervista a cura di Luigi Mastaglia

07 03 2014

Dal libro: “La terza età della Resistenza” di Tullio Clementi e Luigi Mastaglia

D. – Iniziamo con le tue generalità, quando sei nato, dove sei nato, e com’era composta la tua famiglia

Beniamino – Io sono nato a Rino, eravamo in sette figli quattro maschi e tre femmine, io sono il secondo figlio e sono nato il 10 ottobre 1935. Il primo è Giovanni che ha compiuto gli ottanta anni, le sorelle Marianna, Candida, Domenica è l’ultima figlia della famiglia.
D. – Qualche ricordo della tua infanzia che presumo si sia sviluppata quasi tutta a Rino di Sonico.
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Beniamino
– La casa paterna è quella che vediamo da questa finestra, è stata riedificata perché è bruciata nel 1981 per lo scoppio di una bombola. Siamo nati ed abbiamo vissuto tutti in quella casa che era inizialmente del Geometra Mottinelli. Quando sono cresciuto ho costruito questa casa perché la non potevamo vivere tutti, era troppo piccola. Io lavoravo a Forno Allione alla Elettrografite (poi UCI), e quando non andavo in fabbrica mi impegnavo a costruire i muri di sostegno nel prato e poi anche quelli della casa.
D. – Quanti anni avevi quando gli alleati hanno bombardato la Polveriera?
Beniamino – Compivo i dieci anni a ottobre e la polveriera è stata bombardata il 29 marzo 1945 era il Giovedì Santo.
D. – Quali ricordi hai del periodo della guerra partigiana? Avevi 8/9 anni nel 1943/44 e certamente hai visto, sentito e vissuto qualche particolare momento legato alla guerra di liberazione, racconta a ruota libera.

Beniamino – Io ho tribolato, specialmente quando è stata bombardata la polveriera. Ma mi sento in difficoltà a raccontare liberamente alcuni episodi. Non voglio parlare bene dei vivi e parlare male dei morti, non lo ritengo corretto. Io avevo nove anni ma capivo quello che voleva dire. Quando hanno giustiziato Mussolini ero in camera, in mezzo al Papà e alla Mamma. Toc, toc, toc, … picchiano alla porta e entra la Zia Pina sorella di mio papà, mamma della Rosina (Rosi Romelli) e moglie del Comandante Bigio (Luigi Romelli); mostra una fotografia riportata su un giornale dicendo “ardé che fì che la fat el crapu” (guardate che fine ha fatto il testone), io stavo per guardare ma i miei me lo hanno impedito dicendomi che lo avrei visto più avanti perché non avevo ancora l’età per vedere certe cose. Questo è un episodio che mi è rimasto impresso. L’età ed il comportamento era quello di un bambino vivace, che voleva sapere tutto e che era difficile tenere fuori dai fatti che andavano a succedere in quei momenti bui. Sono andato alcune volte a portare qualcosa da mangiare ai partigiani che erano rifugiati nei boschi, nelle malghe (Pramasù ed altre), ero un bambino vispo e spericolato, difficile da tenere sotto controllo e così mi trovavo implicato più o meno direttamente in cose che non avrei dovuto fare, e sentivo cose che non avrei dovuto sentire, come quel giorno che la moglie di Cesare ha chiesto ai fascisti “ma, ief mia gnamò ciàpàc?” (ma non li avete ancora presi?). Vicino alla casa paterna, c’era un “bait” (una cascina / fienile) e mi ricordo che quando, i tedeschi e fascisti, venivano per fare rastrellamenti, alloggiavano in questa cascina. Erano diversi, anche più di venti. Ricordo che la polveriera era tutta recintata, partiva dal cimitero di Sonico e arrivava fin quasi a Rino. Eravamo in mezzo alla guerra.
D. – Mi dicevi che sei in rapporto di parentela con la famiglia del Comandante Bigio (Luigi Romelli)

Beniamino – La moglie del Bigio si chiamava Mottinelli Giacomina ed era sorella di mio papà Mottinelli Stefano, noi la chiamavamo zia Pina. Mio papà è morto giovane aveva 53 anni, io ero militare e mi hanno dato una licenza di dodici giorni.
D. – Tuo papà era effettivo nei partigiani?

Beniamino – Sicuramente era uno stretto collaboratore, anche se non faceva parte del gruppo combattente, fungeva da staffetta, da rifornitore di viveri. Ricordo che andavamo spesso al “Gnech” una cascina poco distante dal paese dove a volte passavano i partigiani a raccogliere informazioni ed a ritirare viveri. Un giorno ci stavamo proprio recando la, quando dopo aver superato la santella, che c’è ancora adesso, abbiamo visto, appoggiato per terra, un fucile ed io, istintivamente mi sono avvicinato per prenderlo, papà ha fatto un verso e mi ha detto “tochél mia!” (non toccarlo) ed abbiamo proseguito per la strada. Eravamo andati avanti di poco più di cinque metri che arrivano quattro o cinque “barete negre” (repubblichini) che ci dicono “avete visto un fucile?” e noi “si”, “perché non lo avete preso?” dicono loro di rimando, e mio papà risponde “non è cosa mia e per questo non l’ho toccato!”. Certamente era una trappola, se lo avessimo preso chissà cosa ci poteva succedere. Pensa che ci hanno tenuto fermi per più di mezz’ora ed hanno continuato a fare domande, chi siete, dove andate, a fare cosa, avete visto partigiani?, ci hanno “torciato mia poc” (interrogati energicamente), io l’avevo letteralmente mollata nelle “braghe”. Mio papà ha detto che doveva andare nella cascina per dare da mangiare alle mucche (era vero) e che si era fatto accompagnare da suo figlio, per non lasciarlo sulla strada a bighellonare. Finalmente ci hanno mollato, ma che paura!

In “Pramasù”, i partigiani avevano costruito una baracca e vi si rifugiavano spesso. Avevano fatto un accordo con gli operai che utilizzavano la teleferica per recarsi al Baitone, questi dovevano fischiare in un certo modo se sapevano in preparazione o c’erano in atto dei rastrellamenti.
D. – Dovresti ricordarti anche se non eri presente del grave fatto di sangue accaduto, quando i fascisti hanno torturato e massacrato il Partigiano Troletti Francesco, mi sai dire qualcosa?

Beniamino – Il ragazzo è stato catturato, dai fascisti, stava tornando da Edolo dove si era recato a trovare il papà che lavorava in stazione. I fascisti volevano estorcere informazioni sui partigiani e sui loro rifugi, il Troletti non ha parlato nemmeno sotto tortura ed allora lo hanno finito a bastonate, dentro in Val Malga. Alcuni ragazzi dicevano che era stato ucciso un uomo e che stavano per portarlo in paese. Io mi sono recato sulla strada verso Garda, dove c’è la casa del “Bunumì”, perché avevo sentito che lo stavano portando su un carretto di frasche, lo stava trasportando il “Pierulì di Dane”, ed ho visto che sporgeva una gamba da dietro il carretto, io mi sono avvicinato ed ho chiesto al conducente “fammi vedere almeno la testa” ma niente da fare, ha risposto bruscamente “non sono cose da mostrare ai Gnaréi”. La salma è stata depositata nella sala mortuaria del cimitero. La gente aveva paura di rappresaglie se andava anche solo a recitare un Requiem. Il Parroco Don Michele, ha celebrato il funerale solo dopo tre giorni che lo avevano portato. Poi gli hanno cambiato posto più volte, inizialmente è stato inumato vicino alla camera mortuaria, a sinistra, poi è stato spostato fino a quando, l’ANPI, ha messo un cippo ricordo una croce di marmo, ma credo che ormai le ossa siano finite nella fossa comune. Troletti Francesco era del 1922 ed è stato ucciso nel 1944.
Nota: Nello stesso giorno che ho raccolto la testimonianza di Beniamino, ho incontrato un altro “ragazzo” di quei giorni, un certo Gulberti di Rino di Sonico (allora aveva 6-7 anni) che mi ha confermato sostanzialmente la versione di Beniamino, con un’aggiunta : lui ha saputo che il trasporto della salma del povero Troletti, nella prima tratta, dalla Val Malga fino all’incrocio con la strada per Garda, è stato effettuato utilizzando una scala a pioli ricoperta di frasche, poi nell’ultima parte il corpo è stato caricato su un carretto.
D. – Per tornare alla polveriera, mi dicevi che era tutta recintata e guardata a vista dai soldati. Naturalmente a voi ragazzi sarà stato raccomandato di stare alla larga da quel luogo. Nel giorno che è stata bombardata tu dove ti trovavi? Quali ricordi hai di quella tragedia che ha provocato la morte anche di sette civili?

Beniamino – Io mi trovavo qui a casa e quando abbiamo sentito gli aerei siamo scappati e ci siamo rifugiati in cima al prato, dietro ad un dosso dove passa il torrente Remulo, in mezzo alle piante. Gli aerei venivano dalla parte di Garda e sorvolavano a bassa quota la zona, salivano verso la montagna e viravano sopra Edolo e poi sopra le montagne di Malonno e ritornavano su Rino provenendo da Garda. Hanno fatto più giri ed hanno bombardato. Noi abbiamo sentito una serie di spaventose esplosioni ma abbiamo visto poco perché eravamo accucciati al riparo a pregare! Quando tutto è finito, abbiamo saputo che c’erano stati dei morti (7 civili) che erano nelle vicinanze impegnati nella lavorazione dei campi, non sono stati in tempo ad allontanarsi o a trovare un rifugio sicuro. I morti sono: Adamini Giacomo, Accampi Teresa, Bornatici Giacomo, Branchi Domenica, Masneri Maddalena, Pasquini Maria Agnese, Romelli Maria Onesta. Un mio zio “Angilì” quel giorno era nelle vicinanze con un mulo per fare dei lavori, quando ha sentito gli aerei è riuscito a scappare verso il ponte Dassa e si è rifugiato in un buco che è nei pressi, lui si è salvato ma, è stato ricoverato in ospedale per oltre un mese per guarire dallo spavento.
Testimonianza della Signora Mottinelli, moglie di Beniamino – Io abitavo a Moscio una frazione del comune di Malonno situata sul versante della montagna prospiciente Rino di Sonico, ero una ragazzina e con la mamma e altre abitanti di Moscio eravamo andate a Odecla dove c’è la chiesa, impegnate nelle funzioni del Giovedì Santo (forse le quarant’ore). Ricordo che quando è stata bombardata la polveriera, lo spostamento d’aria in conseguenza all’esplosione ha frantumato tutti i vetri della chiesa, fortunatamente senza conseguenze per i fedeli intenti nelle loro preghiere. (Odecla, dista da Rino di Sonico, oltre tre chilometri in linea d’aria). Questo episodio, lo ricordo ancora con un senso di paura e mi è rimasto molto impresso.