Nato a Temù il 13 dicembre 1895, fu ufficiale degli alpini nella prima guerra mondiale. Nel primo dopoguerra lavorò in banca fino al 1940, quindi richiamato a combattere sul fronte greco-albanese. Catturato a Zara dai tedeschi l’8 settembre 1943 riuscì a fuggire e a tornare in Italia. Che segnò la fondazione dei gruppi delle fiamme Verdi, e inizialmente invitato ad assumere il comando militare che, in prima istanza, accettò, senza tuttavia intraprendere alcuna azione. A dicembre 1943, sollecitato da Ragnoli, dichiarò di declinare l’invito a partecipare alle azioni dei gruppi FF.VV., “un’impresa in cui c’erano i preti”. Con ogni probabilità, dietro il rifiuto di Menici vi erano ragioni più complesse, legate probabilmente a una diversa visione dell’attività bellica dei gruppi partigiani. Tali ragioni sembrano emergere anche in un suo memoriale, preparato durante il suo fermo in val Brandet: “Ebbi come norma di evitare un incidente con le forze armate tedesche. Ci sarebbe agito in massa al momento delle maggiori possibilità militari in collegamento con tutte le forze della ribellione e quelle delle forze armate degli alleati”. Il colonnello sembra intendere la lotta partigiana come preparazione allo scontro finale, All’arrivo degli alleati, evitando il pericolo di violenze di distruzioni della valle. Nell’ottobre 1944 si avvicinò con il suo gruppo dell’alta Valle alla 54ª brigata Garibaldi. Il 13 ottobre 1944 un reparto di SS di stanza a Edolo irruppe nella casa di Menici, arrestando la moglie, la figlia Luciana, la sorella Anna e i figli di quest’ultima Idilia e Zeffirino Ballardini. Luciana e Idilia furono deportate nel campo di Gries (Bolzano), mentre Zeffirino fu ucciso pochi giorni più tardi a Edolo. Il 15 ottobre il colonnello Menici si recò a Edolo per un colloquio con i tedeschi, allo scopo trattare la liberazione dei familiari. Fu rilasciato, con l’accordo di fissare un nuovo appuntamento il 18 ottobre. Nel luogo dell’appuntamento alcuni partigiani delle Fiamme Verdi lo fermarono e lo costrinsero seguirli in Val Brandet. Qui restò fino al 10 novembre, quando i tedeschi chiesero alle Fiamme Verdi di Corteno di poterlo interrogare, in cambio della liberazione di sei partigiani catturati. La proposta fu accettata con l’approvazione del comandante FF.VV. Ragnoli. L’incontro e l’interrogatorio avvenne alla presenza delle Fiamme Verdi. Al termine, il colonnello fu accusato di tradimento e il 15 novembre fu processato dal tribunale partigiano e condannato a morte. La richiesta di grazia fu inoltrata il 20 novembre e fu concessa dopo un colloquio con Ragnoli e il col. Basile: i due ufficiali firmarono la concessione della grazia, mutando la condanna in esilio e disponendo il trasferimento di Menici in Svizzera. Il pomeriggio del 22 novembre, accompagnato da un partigiano che doveva fargli da guida, Menici lasciò la Val Brandet ma fu intercettato, insieme al suo accompagnatore, da una pattuglia tedesca sulla strada che conduce all’aprica: il colonnello venne colpito e ucciso, mentre l’accompagnatore riuscì a sfuggire. La vicenda suscitò allora e in seguito una serie di polemiche, non ancora placate, a partire dal volume di Mimmo Franzinelli del 1995 che, fondandosi essenzialmente su dichiarazioni del figlio di uno degli ufficiali tedeschi della pattuglia di Aprica, accusò le fiamme Verdi di aver orchestrato l’omicidio di Menici. A tali accuse rispose l’allora Presidente dell’associazione Fiamme Verdi, Ermes Gatti, al tempo dei fatti anch’egli partigiano in Val Camonica, con il documentato volume Difendo le fiamme Verdi. Sulla vicenda occorrerà certamente tornare con approfondite ricerche storiche, che permettano di ricostruire con precisione i fatti senza teoremi o preconcetti.