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gregoriocanti

 

 

 

 

Giovane cortinese (classe 1921), partigiano della brigata FF.VV. Schivardi, amico intimo di Giovanni Venturini, con lui collaborò nella gestione della logistica e del vettovagliamento dei gruppi partigiani, nonché allo smistamento e alla consegna degli ordini e delle informazioni militari dal comando agli insediamenti dei gruppi. Insieme a Venturini fu arrestato il 26 febbraio 1945 e con lui condivise il martirio l’11 di aprile 1945.

 

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IL COLTELLO DI CANTI

Di Candido Poli di Vezza , compagno nella prigione di Edolo di Canti per qualche giorno.

Ho conosciuto Canti Gregorio di Corteno il pomeriggio del giorno 24 Maggio 1945, il sabato precedente la Domenica delle Palme nella lurida prigione di Edolo, situata al secondo piano di una palazzina antistante la fontana della Piazza del mercato.

Ho fatto conoscenza del suo coltello la sera stessa, mentre, accucciati nella paglia brulicante di pidocchi, tagliavamo un pezzo di pane nero duro come un calcinaccio.

Incontro tra due Fiamme Verdi che fino a quel momento si ignoravano: due giovani mossi da uno stesso ideale, protesi verso una stessa meta, la libertà, che diventarono intensamente amici, scambiandosi un coltello.

Canti era un contadino e aveva il suo coltello.

Anch’io avevo posseduto nella mia adolescenza contadina un coltello. E’ impensabile un pastorello senza un coltello!

Senza un coltello niente bastoncini di nocciola bucolicamente intarsiati, niente zuffoli da verdi arboscelli di ontano selvatico in primavera! E quando i lunghi rintocchi della campana risalivano per le valli ad annunciare a noi pastorelli il mezzogiorno, come avremmo potuto gustare il nostro pane ovattato da deliziose fettine di formagella o di pancetta stesa, se non avessimo avuto il nostro coltello?

Un coltello è un affetto troppo caro per un ragazzo: tanto caro che a non averne posseduto uno nella fanciullezza, quasi la rende orfana di qualcosa di veramente essenziale per la completezza della gioia giovanile.

Con Canti ho trascorso otto giorni di prigione: tutta la settima santa del 1945. Liturgicamente era la settimana santa: ma per noi era una delle nostre settimane di passione, di incubo, di lungo incontro ravvicinato con la morte fraticida.

Con Canti c’erano Scilini Giovanni da Stazzona, Negri Vittorio della Motta, giunti dalla prigione di Corteno tutti nel pomeriggio del sabato vigilia delle Palme.

Era subito germogliata una viva amicizia: quella che nasceva come una fiamma ardente tra Fiamme Verdi, per di più cadute negli artigli a dei carnefici fascisti della esecrata Tagliamento.

Canti era un alpino reduce dal fronte russo: era un alpino che nella lontanissima gelida steppa russa aveva versato il proprio sangue per quella Patria per la quale stava ancora soffrendo, prigioniero di italiani resi feroci come belve dall’odio loro inculcato dalla tenebrosa atarica barbaria tedesca!

Ma Canti aveva gli occhi buoni da bambino: aveva tanta barba ma il suo viso era dolce, angelico. Il suo corpo era forte: ma il suo animo era mite, generoso, sublime nella accettazione e nella sopportazione del proprio martirio.

Nel silenzio mattutino della lercia prigione, si udivano a tratti i fiochi lamenti di Tambià, rinchiuso a chiave nella stanza accanto.

Tambià non era più un essere umano, ma un corpo orribilmente straziato, che non riusciva a morire. Canti sapeva tutto di quanto era accaduto a Tambià e quando i lamenti rompevano, seppur fievolmente, il tormentoso silenzio di quelle notti atroci, non imprecava: sottovoce pregava: piangeva e pregava: ed io pregavo con lui.

Da Canti ho imparato a pregare con convinzione e con umiltà e sempre la Madonna.

Da Canti ho imparato come un contadino sapeva recitare la Divina Commedia, che lui aveva imparato durante la lunga degenza in un ospedale militare germanico. Solo Don Pino Rigosa all’Arici sapeva recitare così bene la Divina Commedia.

Canti mi aveva raccontato tutto il diario della sua vita civile e militare. I nostri discorsi finivano inevitabilmente allo stesso modo: la mamma. Cosa farà… cosa penserà.. chissà quanto soffrirà.. E dalla mamma di quaggiù il nostro pensiero si alzava alla Madre Celeste. Solo in Lei avevamo ancora fiducia: non certo negli uomini diventati bestie. Quando ebbimo l’occasione di vedere Tambià durante i bombardamenti aerei su Edolo del giovedì e del venerdì santo del 1945, Canti sopportò con fortezza l’inumana vista del martire delle Fiamme Verdi. Non una parola di odio, seppur legittimo, contro i carnefici: solo il rincrescimento di non poter comunicarsi il giorno del venerdì santo!

La mia non fu amicizia per Canti: molto, molto di più!
Canti divenne mio fratello, non nella carta, ma nel dolore e nell’olocausto della giovinezza per la conquista della Libertà, per la vittoria della giustizia sulla tirannide.

La sera del venerdì santo del 1945 quando ebbi l’ordine di prepararmi verso un destino ignoto, Canti, abbracciandomi fortissimamente, pose il suo coltello nella mia mano.

“Se campi, a guerra finita, portalo a mia mamma”

Il coltello di Canti mi seguì verso il campo di concentramento e mi fu di utile compagnia durante il tempo della fuga verso la libertà.

Poi un brutto giorno, il sabato 14 aprile 1945, sopra Edolo, in una baita la terribile notizia: Canti, Tambià, Scilini, Negri trucidati dall’odio fascista.

Non ricordo nulla. Il contadino mi rianimò con la grappa.

Ripartii alto nei boschi, sopra Incudine, mentre dal Mortirolo, arrivarono con folate di vento il crepitio delle mitragliatrici.

Il coltello di Canti non c’era più: era rimasto nel pezzo di pane nero davanti alla baita nell’erba nascente.

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